Tra i faggi della Valle del Rio Arno, a circa un’ora da Pietracamela, due cippi di pietra e due targhe di bronzo ricordano una tragedia lontana. Qui, il 12 febbraio del 1929, hanno perso la vita Mario Cambi e Paolo Emilio Cichetti, due alpinisti che conoscevano bene il Gran Sasso, e che avevano tentato di salire d’inverno la cresta Sud del Corno Piccolo.
A uccidere Mario e Paolo Emilio, che si sono accasciati per l’ultima volta sulla neve a qualche centinaio di metri l’uno dall’altro, furono un’ondata di maltempo particolarmente violento, le nevicate copiose e due errori che oggi, con il senno di poi, è fin troppo facile indicare.
Il primo, alla partenza da Assergi, fu quello di lasciare in paese gli sci, che quattro giorni più tardi avrebbero consentito ai due alpinisti una fuga molto più veloce in Val Maone. Il secondo, quando il tempo peggiorò decisamente, fu di non rinunciare all’ascensione che avevano a lungo sognato per mettersi in salvo. Uno errore che nella storia dell’alpinismo ha causato fin troppe vittime.
Scrivo nel pomeriggio del 28 dicembre, ventiquattr’ore dopo il ritrovamento dei corpi di Luca Perazzini e Cristian Gualdi, in Valle dell’Inferno, da parte degli straordinari soccorritori del CNSAS e del SAGF dell’Aquila. Come altre migliaia di persone, nei giorni scorsi, ho sofferto mentre il maltempo impediva le ricerche, e riduceva fino a cancellarla del tutto la possibilità che i due alpinisti potessero sopravvivere e raccontarla.
Da giornalista, ieri sera, ho scritto una cronaca per Montagna.tv e un commento per Il Messaggero, tentando di ricostruire gli eventi, di sottolineare l’abnegazione dei soccorritori, di precisare sfruttando alla mia conoscenza dei luoghi e dell’alpinismo sul Gran Sasso qualche dettaglio che la stampa generalista ha trascurato.
Non è mai facile raccontare e commentare queste tragedie, perché in casi come quello di Cristian e di Luca (mi era già successo per Pino Sabbatini, per Roberto Iannilli e per altri) sento di aver perso due fratelli. Il paragone con la fine di Cambi e Cichetti novantasei anni fa mi è venuto in mente solo dopo aver consegnato i miei pezzi. E’ giusto così, perché la riflessione viene dopo la cronaca.
Il mondo del 1929 era molto diverso da quello in cui siamo abituati a vivere. Oggi viviamo le tragedie (poco importa se a Gaza o sull’Everest, nelle città bombardate dell’Ucraina o al Gran Sasso) praticamente in diretta. Al tempo di Cambi e Cichetti le notizie arrivavano con giorni e giorni di ritardo.
Nel 1929 i soccorritori (nel caso di Cambi e Cichetti gli Aquilotti di Pietracamela e gli alpini) non disponevano né di funivie né di elicotteri. Il maltempo che ha imperversato nei giorni scorsi sul Gran Sasso è sembrato far ridiventare la montagna remota e inaccessibile come quasi un secolo fa. Poi, con il sole, il mondo è ridiventato piccolo e connesso, ma a quel punto non c’era più niente da fare, salvo ritrovare i corpi, portarli a valle, ricomporli per il dolore delle famiglie e degli amici.
Se penso alle tragedie dell’alpinismo causate dal troppo amore, dall’incapacità a rinunciare a una vetta desiderata e sognata a lungo, mi vengono in mente prima di tutto gli “ottomila”, e le ultime ascensioni di Benoît Chamoux sul Kangchenjunga e di Stefano Zavka sul K2. Ma queste cose accadono anche sulle Alpi, come dimostra la fine di Sara Stefanelli e Andrea Galimberti, nello scorso settembre sul Monte Bianco. E possono succedere anche sul Gran Sasso, che se si bada alla quota non è certo un gigante, ma dove la posizione geografica e l’isolamento fanno sì che il maltempo possa essere particolarmente violento.
Un’autorità in materia di alpinismo e Gran Sasso come la guida Giampiero Di Federico ha ricordato a tutti noi che il maltempo di domenica è arrivato molto prima del previsto, sorprendendo i due alpinisti romagnoli. Sono certo, però, che domenica scorsa molti amici aquilani, che pure conoscono il Gran Sasso a memoria, a causa delle previsioni meteo hanno rinunciato a un’uscita verso il Corno Grande per ripiegare verso una vetta meno esposta, per esempio il Terminillo e il Monte Ocre.
Per due uomini arrivati dalla Romagna in Abruzzo, rinunciare a un’ascensione al Corno Grande desiderata e programmata da tempo sarebbe stato più duro. E invece saper fare dietrofront in tempo, sul Gran Sasso come sul Monte Bianco o sull’Everest, è la prima garanzia di salvezza. Anche la fine di Giorgio Lanciotti, l’escursionista scomparso a settembre sulla Vetta Orientale, ci ricorda che sul grande massiccio abruzzese, quando il tempo peggiora, è bene rinunciare ai sogni e pensare a mettersi al riparo.
L’ultima, tragica avventura di Luca Perazzini e Cristian Gualdi, come quella di Mario Cambi e di Paolo Emilio Cichetti, ci ricorda l’importanza di saper tornare indietro prima che sia troppo tardi. Vale per gli alpinisti, per gli escursionisti, per mille altre attività della vita.
Buona sera Stefano Ardito, lei non conosce me ma io conosco lei.
Socia del CAI, ci incontriamo in eventi ufficiali, l’ultimo l’11 dicembre; articolo sereno e privo di sovrastrutture che potrebbero far commentare i più in modo “ciaccolatorio”.
Complimenti per una disamina scevra di recriminazioni fuor di luogo.
Grazie per aver sottolineato ancora una volta la capacità di rinuncia che nella società di oggi equivale ad un fallimento.
Lo utilizzerò nei Corsi CAI che tengo da anni e nei quali ho visto una grande superficialità e poca propensione alla rinuncia.
Io non sono un alpinista vivo al mare ,però penso che l’attrezzatura di sopravvivenza bisogna portarla sempre anche se pensi che non ti possa servire, è un peso in più che porterai però se ce ne bisogno ti salva la vita ,ad esempio in mare quanti marinai morti per naufragi, per non avere indossato il giubbotto salvagente con il mare in tempesta ,noi sull’adriatico ne ricordiamo tanti
@Giuliano Purtroppo in inverno in alta montagna nella tempesta non c’è attrezzatura d’emergenza che tenga. Un sacco a pelo molto pesante forse. Ma nessuno se lo carica per una gita di un giorno. Troppo pesante e ingombrante. E comunque 4 giorni in un sacco a pelo esposti al vento a -10/15 sono comunque tanti e probabilmente troppi. La strategia che tutti adottano è piuttosto di evitare il brutto tempo. I più previdenti si portano un piumino e un telo leggero termico. Che in caso di incidente però, in condizioni estreme, aiutano solo fino a un certo punto. Gli errori sono sempre possibili. Nel whiteout col vento forte non si vede niente e non si capisce niente. Una volta sulla montagna di 2000m davanti casa, salita decine di volte, ci perdemmo per quasi un’ora. Vento brutale, -15. Eravamo saliti con gli sci su una vecchia pista, in parte segnalata. Ma in cima la tempesta ci disorientò completamente.
Very true. Montagna (come il mare) è scuola di vita
Simone Moro lo dice spesso: la montagna insegna la rinuncia. E se non impari in fretta la rinuncia, devi giocare a dadi con il destino. Profondamente colpita dalla serie sfortunata di eventi.
Un articolo lucido che invita a riflettere
Difficile darti torto caro Stefano. La rinuncia è una decisione difficile ma spesso è l’unica che ci permette di tornare a casa. Un abbraccio
La logica dell’articolo non si discute , nella modesta attività escursionistica e alpinistica personalmente ho rinunciato e continuerò a rinunciare alle vette se le condizioni ambientali non lo permetteranno . C’è un però , noi possiamo programmare tutto ciò che vogliamo ma in montagna nulla è ponderabile . Il mese scorso abbiamo chiamato il bravissimo Soccorso Alpino sul Marsicano per verricellare un amico col ginocchio rotto , risultato ? Siamo arrivati in valle di notte con le torcette . È andata bene , al contrario cosa sarebbe successo ? Boh . Con ciò voglio solo modestamente far notare che chi ama la montagna può fare tutti i calcoli che vuole ma l_imponderabile è e sarà sempre dietro l’angolo .
Voglio ricordare a sostegno di quanto scritto una frase famosa di R.Messner”E’ più difficile rinunciare alla cima che continuare!”
Mi ricordo a spanne un detto di Bruno De Tassis, che più l meno diceva che l’alpinista migliore è quello che torna a casa. Che sottintende proprio quel che dici, caro Stefano, perché per tornare a casa a volte serve saper rinunciare in tempo, prima che sia troppo tardi.
Scrivo da ignorante della zona. Mi chiedevo perché se stavano nella valle dell’inferno che è un canalone che scende a valle, non siano scesi lungo questo canalone. Chiedo perdono se ho scritto una cretinata
Il canalone che porta alla valle dell’inferno scende sul versante teramano della montagna, mentre i due dovevano tornare alla funivia di Campo Imperatore, cioè sul versante aquilano. In pratica, pare avessero perso l’orientamento. Per di più uno dei due è scivolato, perdendo addirittura uno scarpone
Il vallone dell’inferno non è facilmente percorribile fino “a valle” soprattutto in quelle condizioni, già in condizioni normali sarebbe una bella impresa, è sicuramente più semplice e sicuro risalire verso Monte Aquila, o in alternativa cercare o ricavarsi un riparo (ma senza pala la vedo dura).
Gent.mo Stefano io temo che non tutte le possibilita siano state tentate dai soccorritori seppur animati dalla migliore buona volonta. Doveve essere chiaro a tutti che con quelle temperature e quel vento i soccorsi si dovessero fare la domenica stessa o al massimo lunedì, nessuno poteva resistere all’addiaccio anche in una buca di neve più di due giorni. Considerando che il tentativo di soccorso di domenica pomeriggio non era riuscito e che lunedi le condizioni erano ancora peggiorate, i soccorritori sicuramente sapevano che nella giornata di lunedi sarebbe stato impossibile raggiungere il luogo di caduta da campo imperatore, su tale via esposta al vento, dove i venti di tramontana posso raggiungere anche i 150km/ora. e sapevano che martedi sarebbe stato tardi. Ma c’e una altra via, mi pare assurdo che non la abbiano almeno tentata. La Valle dell’inferno è impercorribile d’estate ma io ritengo si possa risalire con la situazione di innevamento attuale da Casale S.Nicola con gli sci da scialpinismo . E una via molto lunga e faticosa ma alla portata di alpinisti molto allenati , velocita del vento sicuramente forte ma sicuramente molto inferiore che in alto e il rischio valanghe sarebbe stato limitato nel giorno di lunedì con temperature cosi basse. Essendo uno stretto vallone con forti pendenze seguire la strada di salita potrebbe essere possibile anche in mancanza totale di visibilità. Certo arrivati sul luogo della caduta,nella bufera, trovare i dispersi sarebbe stato non facile, ma non impossibile. Cosa pensate?, lo ritenete una possibilita per qualche motivo non perseguibile?
potrebbe sembrare facile e giusto rinunciare. Non lo è, nè facile, nè giusto a priori, per molti motivi. Prima di tutto serve esperienza, conoscenza di sè e dell’ambiente e delle circostanze, lucidità di giudizio, velocità e razionalità nel valutare le alternative e relativi pro e contro. Se la nostra decisione coinvolge altre persone oltre a noi stessi dobbiamo conoscere anche l’altro/gli altri. Spesso ho visto/vedo prendere decisioni che poi si rivelano sbagliate perchè nessuno vuole avere la responsabilità (la vergogna?) di essere il primo a dire “non sono in grado” o “ho paura”, oppure viceversa nascondere le proprie carenze dietro il classico “decidi tu, per me va bene” oppure “stamattina mi sono svegliato con un presentimento”. Chi fa alpinismo soprattutto a un certo livello accetta inevitabilmente un margine di rischio, margine che è diverso per ognuno di noi. Nel bene e nel male bisognerebbe spogliare questa valutazione da fattori emotivi del momento e anche costruirsela un po’ alla volta per sondare la propria capacità individuale di reazione alle criticità. Mano a mano potrò spingermi più avanti nell’ignoto finchè so di essere in grado di tornare indietro. Anche se la certezza non ce l’avrò mai.
Quanto ai soccorritori, sono preparati proprio per prendere decisioni il più possibile corrette, in base alle informazioni in loro possesso, non influenzate da fattori emotivi, non per fare gli eroi ad ogni costo.
Poi qualcosa potrà sempre andare storto, siamo tutti umani, e mortali.