Quando ho iniziato a scrivere di montagna, le interviste ad alpinisti e avventurieri si facevano solo dopo eventi straordinari. Quando mi sono messo a raccontare le loro storie non aspiravo a creare un genere, ma forse un po’ l’ho fatto. Nel 1983, dopo eroi dell’Everest come John Hunt e George Lowe, e una star dell’arrampicata come Ron Fawcett, sono andato nel Derbyshire a intervistare John Merrill, l’equivalente britannico del mio amico Riccardo Carnovalini.

Ecco l’intervista uscita su “Tempo di sentieri”, annuario della “Rivista della Montagna”, e poi sulla prima edizione (1988) dei miei “Incontri ad Alta quota”. Ho letto su un sito britannico che John ha appena compiuto 80 anni, e ha camminato per 219.000 miglia (352.446 chilometri), consumato 133 paia di scarponi e scritto 440 libri sulle sue camminate. Le prime due cifre mi sembrano corrette, la seconda forse è un po’ esagerata, ma che importa? Happy Birthday and Happy Walks, mister Merrill!

Il più grande camminatore del mondo? Mah, sa un po’ di baraccone. Il più feroce consumatore di scarpe o di cioccolata del pianeta? Anche se le cronache più minuziose raccontano delle 1511 tavolette divorate da John Merrill nel corso del periplo della Gran Bretagna, non ci siamo ancora. Un uomo tranquillo? Senz’altro, anche se forse qualcuno arriccerà il naso nel sentir definire in questo modo un tipo che cammina ogni anno (escludendo le passeggiate più brevi e le pipi del cane) per qualcosa come cinque-seimila chilometri.

Forse la cosa migliore è raccontare. E per raccontare John Merrill occorre partire da Bakewell, Derbyshire. Un gruppo di case all’antica, il corso pigro del Derwent. Le colline dolci, verdi, e le pareti di gritstone che occhieggiano un po’ ovunque. Gli uffici del Parco Nazionale del Peak District e il Trail Blazer, un negozio un po’ particolare. Per almeno due motivi.

Intanto perché la sua immagine coincide in misura impressionante con quella del suo proprietario (anche se è più spesso Sheila, la moglie di John, ad accogliere i clienti). Poi perché si tratta, così almeno ci pare, del solo negozio al mondo dedicato solo e soltanto a chi cammina.

Niente corde, dadi, scarpette, insomma, anche se siamo a poche miglia da Froggatt, da Stanage, da Curbar, templi dell’arrampicata su roccia. Scarponi a non finire, tende leggere, liofilizzati, e scaffali interi di guide. Non c’è da scherzare, quando la passione di qualcuno si trasforma in scelta di vita.

Per John Merrill, le due cose sono sempre andate a braccetto. Le prime camminate sono storie dell’infanzia. Già dai primissimi anni Settanta, John inizia a percorrere uno dopo l’altro i Long Distance Paths dell’Inghilterra e del Galles. Del 1970 è la prima impresa nuova: le Ebridi in fila, l’una dopo l’altra, passo dopo passo. E poi via via le Orkney, la costa occidentale dell’Irlanda, la Parkland Journey, la Land’s End-John O’Groats dalla puntaCornovaglia alla costa Nord della Scozia. Nel 1977, l’impresa più dura di tutte. Il periplo costiero dell’intera Gran Bretagna, dieci mesi e settemila miglia di cammino.

Quest’ultima “gita” ha reso John Merrill popolare in Gran Bretagna. Le successive (prima l’Appalachian Trail, poi la Pacific Crest Trail, infine il Great Continental Divide, tutte negli USA) hanno consolidato una fama già solida. E lo stesso hanno fatto le camminate himalayane (brevissime, rispetto alla media), il mezzo giro d’Europa dell’estate 1982 (dall’Olanda a Nizza, al confine spagnolo, e poi tutti i Pirenei).

Da dieci anni, insomma,John Merrill cammina a tempo pieno. È questo a farne un personaggio interessante? Senz’altro, in un mondo dove “il più” è una categoria inevitabile, fatale. Ma non è solo così, per fortuna. A chiacchierare con John, dietro alla modestia tranquilla, all’understatement tutt’altro che forzato, viene fuori una storia da raccontare, una storia vera. Eccola.

Mi dica la verità: non si stufa mai di camminare?

No, no, mi piace. Mi piace muovermi, mi piace osservare con calma la natura che attraverso, i paesi, i fiori, gli animali. Poi naturalmente c’è la voglia di compiere qualcosa.

Un’impresa?

Mah, forse è una parola un po’ grossa. Però si, mi piace fare delle cose che nessuno ha mai fatto. E mi interessa capire fino a che punto posso spingere il mio corpo.

C’è un limite, alla capacità del corpo umano di camminare?

Direi proprio di sì. Durante il periplo della Gran Bretagna, dopo 4.500 chilometri, le ossa del piede destro hanno ceduto di colpo: una frattura da stress, un mese di gesso.

Poi il riposo, e l’incontro con sua moglie: conosco la storia.

Già. Ma quello che mi interessa dire è che il limite esiste per tutti, ed è abbastanza preciso. Tutti quelli che corrono più di 300 chilometri a settimana soffrono di fratture da stress. E tutte le volte che ho cercato di tenere questo ritmo camminando ho avuto dei malanni da affaticamento eccessivo. Per giri molto lunghi, meglio limitarsi ai 250 chilometri a settimana.

C’è un limite alla distanza complessiva?

Non ne sono sicuro. Conosco il mio limite personale, gli 11.000 chilometri del periplo costiero. Ma penso che si possa arrivare anche a 16.000 chilometri. Mi piacerebbe provare, bisogna cambiare un po’ il ritmo, rallentare. E fare i conti con la stanchezza mentale…

… che è un po’ quello che volevo sapere all’inizio. C’è un momento particolarmente duro nelle sue traversate? Un momento in cui si deve spingere, forzare?

Mah, forzare no. Però il momento critico c’è, dopo due, tre giorni. Quando i giornalisti scompaiono, la televisione scompare, gli amici che ti accompagnano all’inizio se ne vanno, e finisce la spinta dovuta ai problemi organizzativi, al nuovo viaggio e via dicendo. Resti solo, e ti rendi conto di quanto hai ancora da fare. Niente da dire: è duro.

Già. Ma restare solo non è proprio quello che cerca, un camminatore a tempo pieno?

Forse. Però, intanto, io come camminatore a tempo pieno sono nato un po’ per caso. All’inizio volevo solo muovermi, stare in montagna.

Fin da bambino?

Fin da bambino. A sette anni ho fatto la mia prima gita nei dintorni di Sheffield. A dodici sapevo già che, in qualche modo, avrei vissuto nella natura. Ma poi ce ne ho messo per decidere di vivere così. Ho lavorato otto anni nella fabbrica di mio padre, poi mi sono stufato. La mia prima lunga camminata, a parte quelle segnate e ufficiali (avevo già fatto la Pennine Way) è stata la traversata completa delle Ebridi, 1600 chilometri, 54 giorni. Tutte le isole da sud a nord.

E tra l’una e l’altra nuotava?

Spiritoso. No, prendevo il traghetto. Ma è stata un’esperienza molto bella comunque.

Ma non le ha mai interessato arrampicare, piuttosto?

Sì, e arrampicavo anche bene. Però si faceva qualche via, poi i miei compagni si andavano a rinchiudere in un pub. E a me restava la voglia di muovermi, e camminavo in giro. Forse erano altri tempi, forse oggi gli arrampicatori sono cambiati anche loro. Poi correvo, a 16 anni facevo il miglio in 4 minuti e mezzo. Ecco: mi sono sempre piaciuti gli sforzi prolungati.

Che poi ha fatto diventare prolungati davvero.

Sì, nel 1970, con le Ebridi. Poi, l’anno dopo, ho fatto una cosa del genere alle Orkney, le isole a nord della Scozia: 1.300 chilometri in tutto.

Sempre senza nuotare.

Sempre senza nuotare. E intanto ho fatto, uno dopo l’altro, tutti i Long Distance Paths, ufficiali o no, della Gran Bretagna. L’altra bella cosa è stata nel 1974. La costa occidentale dell’Irlanda, per intero. 2.500 chilometri, 78 giorni di cammino.

Insomma, camminare sul mare le piace. C’è un motivo?

Mah, non so. La natura è interessante, selvaggia: più che in montagna, almeno in questo paese. Poi però era il solo modo per scoprire qualcosa di non fatto, o quasi. Nel ’76 ho ideato un gran giro poco o nulla sulla costa.

E cioè?

La “Parkland Journey”, 3.300 chilometri, 84 giorni. Toccando tutti i Parchi Nazionali inglesi, tutte le vette più alte, gran parte dei Long Distance Paths. Lì mi sono reso conto che, anche in questo paese, c’era ancora da scoprire. Ed è nata l’idea del grande giro.

La costa?

Sì, la costa. Ma mi sono reso conto che mi dovevo preparare con calma. Nell’estate del 1977 mi sono soprattutto allenato. Ho fatto due volte la Pennine Way, quattro volte la Peakland Way (un percorso di 100 miglia, che avevo scoperto nel 1973), altri quattro o cinque itinerari. E poi la Land’s End-John O’Groats, 2.400 chilometri.

Ma quello non è un sentiero ufficiale?

No, nel senso che non è segnato. Però lo fanno in molti: almeno 50 l’anno, a piedi. E parecchi anche in bicicletta. Al pub di John O’Groats c’è un libro, dove firma chi ha terminato la camminata. Io ho aggiunto qualche piccola variante.

Non avevo dubbi. Quali?

Mah, soprattutto le cime. Lo Snowdon, il Ben Nevis.

E l’anno dopo ha fatto lo stesso.

Sì, sono salito alle vette più alte. Ma per arrivarci c’è voluto un bel po’. Sono partito da Londra, dalla cattedrale di St. Paul, il 3 gennaio. Il 12 febbraio ero a Land’s End, la punta occidentale. Il 3 marzo a Gloucester, e sono entrato in Galles. Sullo Snowdon sono arrivato il 30, con una deviazione dalla costa. Ho lasciato lo zaino, e mi sembrava di volare!

Ci credo. E il Ben Nevis?

Lì sono arrivato il 21 luglio. Ma intanto ero entrato in Scozia con una bellissima accoglienza, poi però mi ero rotto il piede. Sono stato fermo dal 10 maggio al 14 giugno. È stata dura. Ero a metà strada, volevo continuare a tutti i costi, ma non ero sicuro di potere. Brutti momenti…

Però poi è ripartito.

Sì, ma le prime settimane sono state un inferno. Poi ho capito che stavo arrivando, e alla fine andavo benone di nuovo. Sono arrivato a Londra l’8 novembre, a mezzogiorno. Con un’ora di anticipo sull’orda di giornalisti, cameramen, e via dicendo.

E in quel momento si è stufato di camminare in Gran Bretagna.

Ma no, questo paese mi piace, e sto sempre a camminare in giro. Diciamo però che mi sembra veramente di aver fatto tutto, che avevo voglia di cercare altrove. E così sono andato negli Stati Uniti.

Sull’Appalachian Trail, giusto?

Sì, ma è stata una specie di prova generale. Avevo letto sul National Geographic del Pacific Crest Trail, ed ero affascinato. Ho voluto andare per gradi, però. Ed ho iniziato col sentiero più domestico, l’Appalachian Trail appunto. Dalla Springer Mountain in Georgia alla Kathadin Mountain nel Maine sono 3.200 chilometri. L’anno dopo ho cambiato versante.

Il Pacifico, cioè?

Il Pacifico, sì. Sono andato da sud a nord, dal Messico al Canada: 2.700 miglia, 4.300 chilometri. Il record precedente era di 143 giorni: io ne ho impiegati 118, nonostante i 300 chilometri in più che ho dovuto fare a causa dell’eruzione del Mount St. Helens.

C’è un motivo particolare per il fascino degli USA?

Soprattutto lo spazio, le dimensioni. Tutto è così grande, così vasto. Sul Pacifico, capita di passare due settimane senza incontrare una strada. E intanto un giorno cuoci a 40° nel deserto, il giorno dopo sei a tremila metri, e ti tocca campeggiare nella neve. E proprio un’altra scala: anche per gli animali.

Gli orsi?

Proprio così. Quando vengono a frugare intorno alla tua tenda, e li senti girare, hai poco da sbattere le pentole, da far casino per mandarli via: te la fai sotto dalla paura. E poi ci sono i serpenti. Nel deserto di Mojave, in California del sud, ho incontrato alcuni dei serpenti più velenosi del pianeta. Sì, è proprio un altro mondo.

Sembra che sia soltanto in negativo…

No, no. Intanto c’è il problema della lingua: e quando viaggi da solo, ti serve. Poi, che quando incroci una strada, la segui fino al prossimo paese. E altro che storie: ovunque vai, trovi una bistecca alta così.

E la vecchia, piccola Europa non le piace?

Sì, ma è stata un’esperienza un po’ strana. Nell’estate ’82 sono partito dall’Olanda, ho seguito il sentiero europeo fino a Nizza, con una piccola deviazione…

Piccola, piccola?

Beh, volevo vedere l’Oberland Bernese, dare un’occhiata all’Eiger. Così a Ginevra ho piegato a sinistra…

Capisco. E da Nizza?

Ho proseguito sulla costa, fino al confine spagnolo. Poi ho traversato i Pirenei, fino a San Sebastian. In tutto, 4.400 chilometri passo dopo passo. Il vero incubo sono stati i doganieri, alla fine. Non capivano che cosa avessi fatto, e mi hanno tenuto delle ore. Non ne potevo più.

… e quindi ha apprezzato ancora di più i viaggi in un paese solo. Tornerai negli States?

Sì, forse già nel 1984. Ho in programma un quarto giro, sarebbe un grande slam senza precedenti. Voglio camminare da costa a costa.

Ma è stato fatto, c’era un servizio sul National Geographic.

Sì, ma quelli l’hanno fatta lungo le strade. È stupido, ed è relativamente corto: 4.500 chilometri. Io ne farò 7.600, senza strade. Piuttosto toccherò gran parte dei parchi e dei monumenti naturali. È quello che mi interessa vedere.

Quando lei programma un percorso, quanto entra nel dettaglio: il singolo sentiero, il singolo paese?

Non troppo, non voglio eliminare l’avventura. Naturalmente mi procuro le carte della zona: ma non fisso l’itinerario a priori. Definisco solo la direttiva generale.

E le carte se le porta dietro?

No, le spedisco, fermo posta, nei posti che toccherò di due in due settimane. Insieme a un po’ di equipaggiamento.

Ecco, parliamo questo, al camminatore medio interessa senz’altro. Che scarpe usa?

Scarponi, solidi scarponi. Niente pedule leggere, niente scarpe da tennis. Si rischia di farsi a pezzi la caviglia.

E quanto le durano, le scarpe?

Di solito, per un viaggio intero. Tenga presente che uso solo scarponi già rodati, per 7-800 chilometri, nei giri di allenamento.

E contro la pioggia, il gore-tex?

No, non serve. Forse sono io che cammino troppo in fretta, ma non traspira proprio. Anche nei miei giri più “umidi”, soprattutto sulla costa, ho usato delle normalissime giacche a vento di tela. Il gore-tex, invece, va benone per la tenda.

Che usa molto spesso?

Eh, sì. Negli USA praticamente sempre. Anche in Gran Bretagna, sulla costa, dove pure ero ospitato molto spesso in alberghi o pensioni, ho dormito in tenda il 65% delle volte. Circa 200 notti.

Compresa la tenda, quanto pesa di solito il suo zaino?

Più o meno 40 libbre, cioè 16 chili. Poi c’è

il mangiare. Per una settimana, sono 4-6 chili di liofilizzati.

Usa solo quelli?

Che vuoi, è una questione di peso. Conta che c’è anche il gas da portare, e pesa. Per questo è importante mangiare bene quando ci si ferma in un paese.

E non si carica di ricambi?

Praticamente per nulla, d’altronde non ho tempo per lavare. Uso un paio di calze per tre settimane, poi si bucano e le butto via. Non sarà bellissimo ma è pratico, no?

E degli sponsor che mi dice? Per loro, John Merrill è un prodotto, un veicolo come altri. Lei dipende da loro?

Non molto, e comunque sempre di meno. Faccio molte conferenze, ed è un lavoro che mi piace.

Viene molta gente?

Sì, anche 3-400 persone. Poi c’è il negozio, il Trail Blazer, che ho aperto da tre anni. Va benone. Complessivamente mi arrangio. Anzi, sto scoprendo una cosa.

Quale?

Che la popolarità mi interessa poco, in fondo. Certo, per vivere devo vendermi un po’, ma non voglio andare più in là. I miei ultimi giri hanno avuto meno pubblicità dei precedenti. E credo che lo stesso succederà per il futuro. Ho programmi fino al 1987.

Di che tipo?

Beh, degli USA costa a costa le ho detto. Poi mi piacerebbe camminare in Australia.

Dove?

Chiedo scusa, ma è un segreto.

Come gli altri programmi?

Come gli altri programmi.

C’è una cosa che non le ho ancora chiesto. Durante i suoi giri, ogni quanto si ferma?

In che senso?

Ogni quanti giorni ne prende uno di riposo?

Ah, no, mai. Vado di continuo. Nessun giorno di riposo. C’è un motivo preciso. Fermarsi un giorno solo non serve a riposarsi, ci vorrebbe una settimana almeno. Altrimenti perdi soltanto il ritmo. E poi c’è una cosa di fondo. A me, camminare piace.

E chi lo avrebbe mai detto?