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(Da “Molto Salute”, l’inserto che esce con “Il Messaggero”, “Il Gazzettino”, “Il Mattino” e gli altri quotidiani del gruppo)

Nel settembre del 2024, un signore di 66 anni è partito per un “giretto” in bicicletta. Dalla sua casa ai piedi delle Pale di San Martino, in Trentino, ha pedalato per mille chilometri fino in Francia. In Provenza, nel canyon del Verdon, ha salito “La fête des nerfs”, una via di arrampicata di 300 metri con difficoltà fino al 7a+, l’ottavo grado della scala classica. Poi si è rimesso sui pedali, ma due giorni di diluvio in Liguria lo hanno costretto a rinunciare e a cercare un passaggio in auto verso casa.    

Quel signore, che oggi di anni ne ha 67, non è un anziano come gli altri. Si chiama Maurizio Zanolla, ma tutti lo conoscono con il suo soprannome, Manolo. Mezzo secolo fa, da adolescente, ha rivoluzionato l’alpinismo arrampicando su difficoltà mai viste prima, con ai piedi un paio di scarpe da tennis. A volte scalava senza corda, a volte era legato ma usava pochissimi chiodi. Per lui, rischiare una caduta mortale era una parte del gioco.

Qualche giorno fa, al Festival della Montagna di Trento, Manolo ha ricevuto il premio alla carriera della SAT, la Società degli Alpinisti del Trentino. E ha sorpreso tutti raccontando di conoscere bene la paura. “Avevo paura del vuoto, il coraggio l’ho costruito negli anni”.

Manolo, è vero che lei ha avuto paura? In che occasioni l’ha provata?

“In parete, salendo da primo, con la corda che scendeva in verticale dietro di me. Ho impiegato anni per controllarla e superarla. Alla fine, come ho scritto, ho imparato a “usare il vuoto come un punto d’appoggio”. Ma c’è voluto molto tempo”.   

Cosa pensa della sua paura del vuoto?  

“Averla è stata una fortuna, la paura mi ha aiutato a frenare e gestire l’incoscienza dei vent’anni. Avere paura ti aiuta a essere più attento, a ridurre i rischi. E’ una sfida interiore affascinante”.

Ricorda un momento in cui la paura ha rischiato di bloccarla?

“Sì, tanti anni fa, alla base della gigantesca parete Est del Sass Maor, che volevo salire in solitaria. A pochi metri dalla base si è spezzato un appiglio, sono riuscito a non cadere ma mi sono reso conto del rischio. Poi sono ripartito, e ho percorso da solo la via”.

Può descrivere la paura in parete? Se non la sua, quella dei suoi compagni di cordata, o dei clienti che accompagna come guida alpina?

“La paura ti irrigidisce i movimenti, ti toglie il coraggio di andare avanti, riduce la tua prestazione, ti fa rinunciare. Una volta un cliente ha avuto un attacco di panico alla base della parete, e siamo tornati al rifugio senza aver toccato la roccia”.    

Quando la sua paura è passata, lei è diventato davvero capace di cadere senza preoccuparsi?

“Sì, ma non è mai stata incoscienza. Le corde e le imbragature sono sicure, i sistemi di assicurazione anche, se si cade nel vuoto non si rischia di sbattere sulla roccia. Tanti anni fa, sempre nel Verdon, ho fatto un volo di 60 metri, prima che la corda si tendesse sono passato davanti agli amici che mi facevano sicura. Mi sono preoccupato solo di non danneggiare la macchina fotografica”.

Rispetto a quando lei ha iniziato, il numero delle persone che arrampicano, camminano o vanno in bici è aumentato in modo esponenziale. E si sono moltiplicati gli incidenti evitabili e i soccorsi a escursionisti o alpinisti impreparati. Perché accade tutto questo?

“Sono nato a Feltre, ai piedi delle montagne. Quando ho iniziato a scalare non sapevo nulla di alpinismo, per me Bonatti e Messner potevano essere dei calciatori o dei ciclisti. Nel mio territorio, però, tutti sapevano che la montagna era una cosa seria, che bisognava rispettarla. Quando mi sono messo nei guai, ed è successo più volte, non ho mai pensato che fosse colpa di altri”.

Cosa è cambiato negli ultimi decenni? Tra chi si avvicina alla montagna non c’è abbastanza paura?

“Forse sì. Le persone arrivano dalla città, pensano che sia tutto facile, non sono capaci di scegliere dove andare, né di gestire le emergenze. Se si mettono nei guai chiamano subito l’elicottero”.

Secondo lei bisognerebbe ridurre il numero dei praticanti? Avrebbe senso tornare al passato, con una montagna alla portata di pochi?

“Ma no, intanto perché è impossibile. E poi perché, per chi vive in città, fare attività all’aria aperta è un’esigenza fondamentale, e fa bene alla salute. Io vivo in una baita che mi sono costruito tra i boschi, so di essere un privilegiato. Per i cittadini, però, la natura è fondamentale”.

Lei ha perso degli amici in montagna?

“Sì, e non solo in montagna. Qualcuno è caduto scalando, altri hanno esagerato con l’alcool e sono morti di cirrosi epatica. Ho sofferto per loro e ho imparato a non giudicare, mai”.   

Esiste un modo per ridurre gli incidenti in montagna? Si può togliere un po’ di lavoro al Soccorso Alpino?

“E’ una questione di educazione, bisogna essere preparati, andare a fare gli itinerari che siamo davvero capaci di fare. Internet e la tecnologia ci possono aiutare, ma vanno usati bene. Poi gli incidenti stupidi possono capitare a tutti. Io mi sono fatto male tante volte, e i guai più seri sono accaduti qui, a due passi da casa”.

Cosa ha combinato, Manolo?

“Una decina di anni fa scendevo di corsa nel bosco, sono scivolato su una lastra di ghiaccio e per fermarmi mi sono aggrappato a dei rami, distruggendo i legamenti della spalla. Qualche mese fa, dopo l’operazione per una protesi all’anca, che aveva avuto successo, sono caduto davanti casa fratturandomi in modo grave il femore”.

E’ già tornato in parete?

“No, e ci vorrà ancora un po’. Ma lo farò, è la mia vita”.