L’alpinismo, come qualunque attività in montagna, si basa sulla libera accettazione del rischio. Il Club Alpino Italiano, fin dalla sua nascita, rivendica la bellezza e l’importanza di questa scelta, e si occupa al tempo stesso della prevenzione del rischio (attraverso le scuole di alpinismo, la verifica dei materiali, eccetera). Attraverso il Corpo Nazionale Soccorso Alpino, al quale il CAI dà un contributo fondamentale, le vittime degli incidenti in montagna vengono aiutate e curate con grande efficienza.
Oggi, nei media e nella cultura giuridica, il rischio non è considerato un valore. Spesso, sui giornali, in televisione o nelle pubblicità delle aziende che producono materiali per la montagna il rischio scompare del tutto. La giustizia invece, non soltanto in Italia, va alla ricerca di responsabilità e di colpevoli. Spesso, soprattutto sull’Appennino dove l’alpinismo e lo scialpinismo sono meno radicati, il risultato sono dei provvedimenti di divieto che non salvaguardano i praticanti, ma che danno colpi pesanti ed evitabili all’economia dei borghi di montagna.
Martedì 20 novembre, nella splendida Aula Magna del Rettorato dell’Università di Firenze, queste difficili questioni sono state al centro di un dibattito organizzato dalla Sezione di Firenze del CAI per celebrare i suoi 150 anni di attività. Insieme a me l’amico e collega Enrico Camanni, il presidente generale del CAI Vincenzo Torti, il magistrato fiorentino Filippo Focardi e Alfio Ciabatti, presidente della Sezione di Firenze del CAI. Ha moderato la discussione Alessandro Simoni, alpinista e docente nella Facoltà di Scienze Giuridiche dell’ateneo fiorentino.