Per generazioni di alpinisti e di semplici appassionati di montagna, italiani e non solo, Cesare Maestri è stato un mito. La sua velocità, la sua eleganza, il suo essere “contro” in una terra ordinata e democristiana come il Trentino lo hanno fatto amare al di là del plauso per le sue grandi imprese in parete. Il suo modo di scrivere, capace di lasciare spazio al dolore e all’amore, era molto più emozionante e diretto della maggioranza dei libri di montagna del tempo.
Ho incontrato e intervistato varie volte Maestri, a Madonna di Campiglio e una volta al rifugio Brentei. Ho apprezzato il suo modo di fare schietto, anche quando mi ha buttato fuori dal suo negozio perché gli avevo fatto una domanda di troppo sul Cerro Torre.
Che peccato, la vicenda del Torre! Ho scritto più volte del dramma di un uomo che non era arrivato in cima, che non l’aveva raccontata giusta, che era stato messo sulla graticola da un’informazione (pensate alla campagna di Ken Wilson su “Mountain”) che aveva preso il tono di un’inquisizione. Fino all’ultimo ho sperato che Maestri, prima di andarsene, ci regalasse un ultimo sberleffo, raccontando com’erano andate davvero le cose. Non lo ha fatto, ma ognuno è libero di fare le sue scelte.
Per ricordare con affetto Maestri, vi ripropongo delle citazioni della mia intervista uscita in “Incontri ad alta quota”, un libro del 2018.

“Appartengo a una generazione che è sopravvissuta rubando da mangiare ora a un esercito ora a un altro, che si è trovata a disinnescare bombe o a evitare rastrellamenti. Quando è “scoppiata” la pace avevo sedici anni, e non sapevo cosa fare di me”.

“Nel 1949 Gino Pisoni mi ha portato ad arrampicare in Paganella. Sembra una frase retorica, ma è stato proprio così. Nel momento in cui ho toccato la roccia ho scoperto che quella era la mia vita, che eravamo fatti l’uno per l’altra”.

“Paul Preuss è stato il mio punto di riferimento, fin dall’inizio. Per le sue idee, e anche per lo stile perfetto della sua unica settimana nel Brenta. Tita Piaz mi piaceva soprattutto come personaggio, un anarchico che veniva messo in “galera preventiva” ogni volta che l’imperatore, e poi il re d’Italia, stavano per passare da quelle parti”.

“Ho portato ad arrampicare Tenzing, lo sherpa dell’Everest, sulla Paganella. In vetta c’erano Flaminio Piccoli, Bruno Kessler e altri potenti trentini. Tenzing mi ha chiesto di insegnargli una frase di saluto in italiano, e io gli ho fatto imparare a memoria “la DC rovina l’Italia!”

“Sulla Solleder alla Civetta sono finito fuori via, in un diedro che diventava sempre più ripido. Mi sono seduto su un terrazzino, ho pianto, poi ho ripreso il controllo, sono sceso, ho continuato sulla via giusta”.

“Con Bonatti c’è stata incomprensione, forse un po’ di gelosia. Certo, non mi piacevano le sue salite, da cui tornava raccontando di avere pianto, di avere sofferto, di aver avuto paura dall’inizio alla fine. Io in montagna mi sono sempre divertito, anche sul difficile”.

“Ho smesso di arrampicare alla fine degli anni Settanta, non sopportavo l’idea di vedere il mio declino. Dopo che sei stato abituato alle droghe forti, passare a quelle leggere non serve a niente. A faticare sul terzo e quarto grado avrei sofferto. Ho detto basta, e amen”.

“La mia più bella soddisfazione come guida? Una soprattutto, nessun mio cliente si è mai fatto un graffio!”

L’alpinismo non è una scuola di vita, che fa diventare tutti buoni. Se sei una persona per bene, ti fa diventare migliore. Se sei un figlio di buona donna, lo diventi ancora di più.