La Gran Bretagna imperiale c’è ancora, e tra i suoi simboli c’è la vetta più alta della Terra, che non a caso porta il nome di un topografo nato in Galles. Lo ha dimostrato la celebrazione di martedì 13 giugno alla Royal Geographical Society di Londra, organizzata dall’Himalayan Trust e dalla Mount Everest Foundation, e dedicata ai 70 anni trascorsi dall’ascensione di Edmund Hillary e Tenzing Norgay il 29 maggio del 1953.

Sede dell’evento è stato l’Ondaatje Theatre della RGS, a pochi metri dalle sale dove busti e quadri ricordano Scott e Shackleton, Livingstone e Stanley, gli uomini che hanno cercato le sorgenti del Nilo e il capitano James Cook. Una galleria dove campeggia anche un ritratto di John Hunt, il leader della squadra del 1953.

L’Everest degli alpinisti, lo sappiamo, è stato inglese soprattutto nei primi anni della sua storia, con le sette spedizioni dal versante del Tibet tra il 1921 e il 1938. In due di queste sono stati superati gli 8500 metri, in quella del 1924 George Mallory e Andrew Irvine sono scomparsi mentre salivano verso la cima.

Nel dopoguerra, l’Union Jack ha sventolato sulla scoperta della via di salita dal Nepal nel 1951, e sulla vittoria del 1953. Tra le due spedizioni, hanno tentato gli svizzeri, ma si sono fermati a 8600 metri. Nel 1975 il team di Chris Bonington ha salito la severa parete Sud-ovest, poi sull’Everest si sono dati da fare alpinisti di ogni parte del mondo.

Per gli inglesi, celebrare la storia dell’Everest da soli è naturale. A Londra si è parlato del Nepal, dell’India, dei “cugini” della Nuova Zelanda. Pochissimi gli altri stranieri. C’ero, e ne sono stato felice.

Stephen Venables, nel suo bell’intervento dedicato alla storia dell’Everest nel Novecento, ha parlato della Cresta Ovest degli americani (1963), della salita senza ossigeno di Messner e Habeler (1978) delle salite cinesi del 1960 e del 1975 contestate negli USA e in Europa per lo sventolìo del “libretto rosso” di Mao. Ha concluso quest’epoca il racconto dell’epica salita della parete di Kangshung (1988), alla quale ha partecipato lo stesso Venables.

Kenton Cool, guida alpina con all’attivo 17 salite alla vetta con clienti, ha descritto senza peli sulla lingua l’Everest affollato di oggi, tra budget giganteschi, code lungo le corde fisse, uso e abuso degli elicotteri, immondizia e incidenti mortali. “Oggi però” ha concluso “l’80% delle spedizioni è in mano agli Sherpa. L’Everest è la loro montagna, saranno loro a decidere come lasciarla alle generazioni future”.

Le storie del Regno Unito, del Nepal e dell’India si sono intrecciate nell’intervento di Jamling Tenzing, figlio di Tenzing Norgay, che ha ricordato come il padre abbia insegnare a generazioni di giovani dell’Asia ad avere fiducia nel futuro.

Hari Budha Magar, ex-militare dei Gurkha, ha perso le gambe a causa di una mina antiuomo in Afghanistan, ed è diventato da poco il primo amputato al disopra del ginocchio a raggiungere la cima. La frase “All this, and Climate Change too!”, “Tutto questo, e anche il cambiamento climatico!” ha mostrato l’impegno di Hari per l’ambiente, e ha ricordato il celebre titolo “All this, and Everest too!”, “Tutto questo e anche l’Everest!”, utilizzato dopo l’incoronazione di Elisabetta II e l’annuncio che la cima era stata raggiunta.

Il ruolo della famiglia reale, d’altronde, rendere unico il rapporto tra la Gran Bretagna e l’Everest. Lo ha ricordato un messaggio di re Carlo III accolto con un applauso scrosciante dalla platea. Peter Hillary, un altro figlio illustre, ha ricordato la partecipazione di Elisabetta II e Filippo, dieci anni fa, alla serata per celebrare i 60 anni dell’impresa.

“Si è sentita una porta che si apriva, poi una voce ha detto “tutti in piedi!” La regina e il principe sono entrati, sono saliti sul palco, hanno ascoltato sorridendo. Quando ho detto che mio padre, morto da pochi anni, ci stava probabilmente ascoltando da qualche parte, il principe Filippo mi ha guardato e ha annuito. Stasera mi piace pensare che lui ed Elisabetta siano ancora qui con noi” ha concluso il figlio dell’apicultore di Auckland che nel 1953 è diventato Sir Edmund. Non c’è niente da dire, l’Impero c’è ancora. E l’Everest resta e resterà il suo simbolo.