Più di quarant’anni fa, all’inizio del 1982, ho passato un paio d’ore a casa di Franco Cravino. Volevo farmi raccontare le sue ascensioni per la guida del Gran Sasso che stavo scrivendo insieme a Fabrizio Antonioli. Lo avevo già incontrato a Roma, al Morra, al Monte Bianco e al Gran Sasso, ma quell’incontro è stato una rivelazione.

Franco non ci teneva ad apparire, sapevo dei suoi capolavori come la parete Ovest dell’Anticima della Vetta Orientale (1956) a picco sul rifugio Franchetti, la Via a destra della Crepa e il Monolito (entrambe nel 1957), l’epica prima invernale al Paretone compiuta nel 1960 e raccontata da Carlo Alberto Pinelli in un bellissimo scritto. Per estorcergli il suo lungo elenco di salite importanti sarebbero servite le pinze da dentista. Ha scelto lui, e ha fatto bene.

Ignoravo completamente l’incredibile anello di arrampicata in solitaria compiuto da Franco intorno al Vallone delle Cornacchie del Gran Sasso. Su per l’interminabile cresta Nord della Vetta Orientale del Corno Grande, poi la traversata delle Tre Vette, il sentiero fino alla Sella dei Due Corni, la traversata del Corno Piccolo salendo per la cresta Sud e scendendo per la classica e aerea Nord-est.

Duemila e più metri di arrampicata mai banale, di terzo e quarto con qualche passo intorno al quinto grado, compiuta naturalmente in scarponi.  Se un’impresa del genere fosse stata effettuata da Gigi Mario o da Pierluigi Bini sarebbe diventata celebre. Negli anni Cinquanta di alpinismo si scriveva poco, lo so. Ma era tipico di Franco raccontarla con un sorriso, come un aneddoto da riservare agli amici.

Poi, com’è necessario in questi casi, gli ho chiesto se aveva qualche fotografia da farmi usare. E lui mi ha regalato delle perle. Una foto di Silvio Jovane, con un cappelletto da Beatles, sulle ghiaie (credo) del Vallone delle Cornacchie. E un’altra della celebre moto Triumph di Silvio dalle parti del Passo delle Capannelle.

Un veicolo su cui Franco aveva viaggiato molte volte, negli interminabili andirivieni da Roma al Gran Sasso attraverso la via Salaria, Rieti, Sella di Corno e (se diretti ai Prati di Tivo) anche il Passo delle Capannelle, quando la A24 non era ancora stata aperta, e del Traforo si era appena iniziato a parlare.

Poi ho chiesto a Franco un’immagine sua, e pensavo che me ne avrebbe data una classica, in parete o su una vetta. Invece ne ha tirata fuori una in un bosco d’inverno, mentre tirava una palla di neve all’amico che stava scattando la foto. Dietro di lui, sorridente come sempre, c’era una giovane Chiaretta Ramorino. “Preferisco non fare il fanatico, usa questa” si è schermito quando mi ha visto sorpreso.

Franco Cravino, come chi arrampica al Gran Sasso sa bene, è stato un alpinista completo, fantasioso, poliedrico, a suo agio in cordata o da solo (vedi il “ferro di cavallo” del Gran Sasso di cui ho detto all’inizio), sulla roccia come sulla neve e sul ghiaccio. Forse non è stato un rivoluzionario come Gigi Mario, un re delle Dolomiti come Bruno “Dado” Morandi, un signore del Monte Bianco come il già citato Pinelli.

Franco si schermiva spiegando di avere un lavoro impegnativo, e quindi meno tempo per arrampicare di altri. Ma basta uno sguardo a una guida del Gran Sasso per trovarlo tra gli apritori di decine di itinerari famosi, e basta sfogliare un annuario della SUCAI per scoprirlo sulle Dolomiti e sul Bianco, o nelle spedizioni organizzate dai suoi amici Alletto e Pinelli verso cime eleganti e poco note del Karakorum e dell’Hindu Kush. Nel 1972 è entrato nel CAAI, il Club Alpino Accademico, in cui viene ammesso solo chi ha un’attività poderosa.

Oggi, ma anche nel Sessantotto e dintorni (per non parlare di epoche di qualche decennio più remote), la politica viene spesso usata come clava. Franco era un uomo di sinistra ma lo era in maniera garbata. La sua amicizia con Bruno Trentin, leader della CGIL ed ex-comandante partigiano, era un fatto privato, che li aveva portati insieme molte volte sulle falesie del Lazio e sulle pareti delle Dolomiti e del Gran Sasso.

Anch’io avevo incontrato Trentin più volte in montagna. Ma quando nel 1987 sono riuscito a strappargli finalmente un’intervista sull’alpinismo, che ho pubblicato su Repubblica e su Alp, l’ho fatto solo grazie alla paziente intercessione di Franco. Oltre che di singole salite, abbiamo parlato della legittimità per un militante di sinistra di dedicarsi a passioni diverse dalla politica. Oggi è difficile immaginare una cosa del genere, allora le cose stavano proprio così.

A volte, per gli alpinisti degli anni Sessanta, le schermaglie politiche erano un’occasione per divertirsi. La via FIOM, un bell’itinerario di quarto grado tracciato nel 1966 da Franco Cravino, Dado Morandi e Bruno Trentin sul Sasso di Landro, ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo, è uscita senza nome sulla guida del Club Alpino Italiano e del Touring perché una dedica al sindacato sembrava sconveniente al rigido mondo alpinistico di quegli anni.

Nello stesso periodo Stanislao Pietrostefani, coautore della guida Gran Sasso d’Italia della stessa collana, censurò con sdegno il nome della via Che Guevara sulla Nord del Corno Piccolo, aperta da cordate di Ascoli Piceno e Teramo, con la motivazione che “in montagna non si fa politica”. Poi è arrivato Cravino.

Con il suo amico Tonini, nel 1966, ha aperto una magnifica (e oggi ripetutissima) via sulla stessa parete, e l’ha battezzata Iskra. Pietrostefani, sul volume Omaggio al Gran Sasso edito dalla Sezione dell’Aquila del CAI, non l’ha censurata, e ha scritto di una “denominazione misteriosa”. Invece Iskra, che in russo significa Scintilla, era il nome del primo giornale di Lenin. Franco Cravino ci ha lasciato l’8 luglio del 2023. Lo ringrazio per il suo alpinismo difficile ed elegante, per quella foto con la palla di neve, e anche per l’innocente sberleffo della Iskra.