Da un mese, come milioni (o forse miliardi) di esseri umani, assisto senza poter fare nulla all’ondata di violenza che travolge Israele e i Territori Palestinesi. Prima la criminale mattanza di uomini, donne e bambini innocenti, da parte dei miliziani di Hamas, poi i bombardamenti a tappeto e l’invasione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano, con altre migliaia di vittime. Sullo sfondo gli scontri sul confine tra Israele e il Libano, e le aggressioni, sempre più violente e impunite, dei coloni contro gli arabi della Cisgiordania.

Due giorni fa, su “Montagna.tv”, ho raccontato la mia esperienza di una decina di anni fa sul Jesus Trail, il sentiero che collega in quattro giorni Nazareth, città natale di Gesù e principale città araba di Israele, con Cafarnao, oggi Kfar Nahum, il borgo di San Pietro sul Lago di Tiberiade. Ho scritto dei monumenti, dei luoghi di culto e delle altre attrattive del percorso. Soprattutto, ho raccontato il Jesus Trail come un’esperienza concreta di pace, di convivenza e di collaborazione economica tra arabi ed ebrei in Israele.

Nel mio pezzo ho citato gli esponenti dei due popoli che gestiscono i posti-tappa del Jesus Trail. Ho ricordato che spesso chi va a piedi è un portatore di pace. Ho ringraziato gli ideatori del sentiero, gli americani Anna e David Landis, con cui ho camminato dieci anni ha, e l’israeliano Maoz Inon, che ho incontrato brevemente prima di ripartire per l’Italia. Ho concluso – forse ingenuamente, lo so – con la speranza di poter tornare presto a camminare in quella terra bellissima e martoriata, magari lungo il Golan Trail ideato dal mio amico Yaacov Shkolnik.

Poche ore dopo, grazie al sito del “New York Times”, ho scoperto la tragedia che ha vissuto un mese fa Maoz Inon. Il 7 ottobre, il giorno in cui i terroristi di Hamas hanno ucciso 1.400 israeliani e ne hanno presi molti altri (forse 250) in ostaggio, sono stati massacrati anche Belaha e Yaakov Inon, i genitori di Maoz. Lui però, nonostante il dolore, non ha mai chiesto vendetta, ma ha sempre invitato (e continua a invitare) alla pace.

Ecco cosa ha detto Maoz Inon alla BBC, tre settimane fa (cioè prima dell’attacco israeliano) in un’intervista che potete trovare facilmente su You Tube.

“Non piango per i miei genitori, piango per quelli che perderanno la vita in questa guerra. Dobbiamo fermare la guerra, la guerra non è la risposta. Prego chi ci guarda o ci ascolta di fare tutto quello che può per fermare immediatamente la guerra. Nella mia famiglia non vogliamo vendetta, la vendetta porterà solo più sofferenze e più vittime”.

“Anche se questo è un giorno terribile, la più terribile perdita di vite dalla fondazione di Israele, temo che i numeri possano diventare molto più alti, un numero enorme. Dobbiamo fare tutto per fermare la guerra. Ho paura per i soldati, e per i civili dai due lati, a Gaza e in Israele, che pagheranno con le loro vite. Sto piangendo per questo, ed è difficilissimo per me continuare con questa intervista. Posso solo urlare fermate la guerra. Per favore, semplicemente, fermate la guerra”.

Di fronte a parole così enormi, così forti, così chiare, l’unica cosa possibile è inchinarsi e ringraziare in tutte le lingue del mondo a chi ha avuto il coraggio di pronunciarle. Grazie Maoz Inon! Thank you, todà, shukran!