Secondo l’Enciclopedia Treccani, la prefazione (sostantivo femminile con accento sulla o) è una “dichiarazione che si premette a un libro per presentare l’opera ai lettori, chiarirne gli scopi, i metodi, i motivi”. Può essere “più o meno breve”. Se fatta alla buona può diventare “prefazioncina”, “prefazioncella” o addirittura “prefaziuncola”.
A chiedermi per primo una prefazione, più di trent’anni fa, è stato Maurizio Oviglia, che oggi è un guru dell’arrampicata italiana, e allora era un appassionato esploratore della Sardegna selvaggia, in parete e anche sui sentieri. L’ho scritta con piacere, non ricordo se l’ho spedita per posta o per fax. Computer e mail, ne sono certo, non esistevano ancora.
Poi l’elenco si è pian piano allungato. Alpinisti, scrittori, naturalisti, responsabili di aree protette mi hanno chiesto qualche parola per introdurre i loro lavori. L’ho fatto sempre con piacere, e i miei scritti sono sempre piaciuti agli autori. Una decina di anni fa, all’improvviso, la richiesta di prefazioni si è impennata, e per me è stato (ed è ancora) un onore.
Da allora ho scritto testi introduttivi per i lavori di amici artisti, come il disegnatore Alberto Graia e il fotografo Maurizio Anselmi. Ho scritto prefazioni per vecchi amici alpinisti, come il carissimo Giampiero Di Federico, e altre per camminatori che conoscevo poco o niente. Ne ho scritte per climber che sapevano bene che da anni non frequentavo più le falesie.
Per l’amico editore Giacinto Damiani, dopo aver editato i testi , ho scritto le prefazioni ai due bei libri di Germana Maiolatesi, e a quello che Lorenza Moroni ha dedicato a Stefano Zavka, la guida alpina di Terni scomparsa nel 2007 dopo aver raggiunto la cima del K2. Ho curato con grande affetto l’editing e la prefazione del libro di Silvio Iovane, meraviglioso vecchiaccio dell’alpinismo romano. Appartengono allo stesso filone – e sono stati terribilmente dolorosi – l’editing e la prefazione per l’ultimo libro di Roberto Iannilli, uscito poco dopo la sua morte insieme a Luca D’Andrea sulla parete Nord del Camicia.
Che conoscessi o meno l’argomento del libro, ho sempre cercato di scrivere le mie prefazioni con la testa e con il cuore. “Prefazioncine”, “prefazioncelle” o “prefaziuncole” non ne ho mai fatte. Qualche editore mi ha pagato due lire, perché in fondo scrivere è il mio mestiere. Qualcuno ha detto “naturalmente ti pago!” e poi è sparito.
Altri non ci hanno pensato proprio. Qualcuno mi ha convocato per presentazioni fuori Roma senza rimborsare delle spese di viaggio. I titolari di una piccola casa editrice per cui ho scritto tre o quattro prefazioni non mi hanno mai mandato una copia in omaggio (se non dopo le mie proteste), né hanno mai ringraziato con una telefonata, una mail o un piccione viaggiatore. E vabbè.
Negli anni, scrivere prefazioni mi ha fatto trovare degli amici. E’ successo con Paolo Stern, autore di un prezioso libro dedicato alla giovane alpinista Livia Garbrecht, morta nel 1943 sul Gran Sasso. E’ risuccesso con Stefano Cascavilla e con il volume che ha dedicato alla sua camminata sulle tracce di Garibaldi in Sicilia. Se una prefazione porta in dono un’amicizia è un affare.
Poi sono arrivate esperienze peggiori. Per un piccolo editore marsicano ho scritto la prefazione a una raccolta di scritti alpinistici sul Velino e il Sirente, e poi quella a un libriccino di esperienze e pensieri nella natura selvaggia. L’autore della prima, uno studioso che ha l’età dei miei figli, mi ha accusato di non conoscere i nomi delle vette del massiccio, e invece era lui a sbagliare. Poi ha vinto un premio letterario, e non mi ha nemmeno avvisato.
Il secondo autore, accompagnatore di media montagna, ha fatto peggio, perché quando mi ha chiesto di scrivere una prefazione non mi ha detto di aver militato (o di militare ancora? sarebbe simpatico saperlo) in un gruppo dell’ultradestra. Forse gli avrei risposto di sì lo stesso, ma nascondersi non è bello.
L’ultima vicenda, recentissima, riguarda il libretto di riflessioni e avventure pubblicato giorni fa da uno scialpinista romano. Ho letto il testo, mi è piaciuto, ho scritto la prefazione, e come premio sono stato arruolato per presentare il libro lo scorso mercoledì 9 ottobre alla Sezione di Roma del CAI. L’accordo era che avrei intervistato pubblicamente l’autore. Quando ho visto che sull’invito spedito per mail ai soci del CAI il mio nome non c’era avrei dovuto sentire puzza di bruciato. E quindi inventare un malore o un imprevisto in famiglia, e restare davanti al televisore.
Invece sono andato lo stesso, anche per vedere la nuova bellissima sede ai piedi del Monte dei Cocci di Testaccio. Scelta sbagliata. Al CAI mi sono trovato davanti un dirigente sezionale invasato, che appena mi ha visto ha gridato “quello non deve parlare!” Poi, ogni volta che ho preso la parola, il simpaticone è balzato in piedi contestando quel che dicevo. L’autore e l’editore, invece di affrontarlo, sono rimasti in silenzio. Un po’ di correttezza e di coraggio non avrebbero fatto un soldo di danno.
Mi piacerebbe, dopo tanti anni, tornare al CAI di Roma, di cui sono socio da più di cinquant’anni, per presentare un mio libro. Potrebbe essere “K2. La montagna del mito”, oppure “Guerra sull’Appennino” dedicato alle battaglie combattute tra il 1943 e il 1945 e alla Resistenza. E’ quel che ho fatto e farò ancora in decine di Sezioni del CAI in tutta Italia. A Roma, però, temo di dover aspettare ancora un po’.
Quel giorno io c’ero e ho anche io notato quello che hai appena descritto.