La storia dell’alpinismo himalayano cambia il 3 giugno del 1950. Alle due del pomeriggio, dopo una estenuante salita nella neve profonda, due alpinisti arrivati dalla Francia si abbracciano sugli 8091 metri dell’Annapurna, la decima vetta della Terra. Per la prima volta, un “ottomila” è stato vinto dall’uomo.
Maurice Herzog e Louis Lachenal sono due uomini del Monte Bianco. Il primo è nato a Lione, il secondo è una delle migliori guide alpine di Chamonix, entrambi hanno all’attivo decine di ascensioni importanti. Anche se la radio dell’India ha annunciato che il monsone investirà l’Himalaya tra due giorni, gli alpinisti sono partiti dalla piccola tenda del campo V, a 7400 metri di quota, in direzione della cima.
La mancanza dei respiratori a ossigeno rende la salita ancora più faticosa, le nuvole che si addensano intorno alla montagna fanno capire che il tempo sta per cambiare. Lachenal sente che i suoi piedi si stanno congelando e propone al compagno di scendere, ma Herzog, che è il capospedizione, si rifiuta di cedere.
L’abbraccio tra i due alpinisti francesi sulla cima dell’Annapurna segna la fine di oltre mezzo secolo di tentativi andati a vuoto sui fianchi dell’Everest, del K2, del Nanga Parbat e delle altre grandi montagne della Terra. Come spesso accade nella storia, è stato lo sforzo bellico a far progredire le tecnologie utilizzate in tempo di pace.
Rispetto a un Mallory, a un Wiessner, a un Welzembach, a un Merkl, gli alpinisti degli anni Cinquanta non hanno più coraggio o più fiato. Invece che di pesanti giacche e pantaloni di lana o tweed, però, dispongono di leggere e confortevoli tute d’alta quota derivate da quelle utilizzate dai piloti. Piccozze e ramponi sono migliori e più leggeri, gli scarponi doppi o tripli sono ingombranti ma infinitamente più caldi. Soprattutto, ancora grazie alla tecnologia aeronautica, i respiratori a ossigeno sono molto più leggeri ed efficienti che in passato.
A permettere la vittoria sull’Annapurna è anche l’apertura dei confini del Nepal agli stranieri. La squadra francese del 1950, che comprende oltre a Lachenal e ad Herzog i fortissimi alpinisti Lionel Terray, Gaston Rébuffat e Jean Couzy, il medico Jacques Oudot e il regista Marcel Ichac, entra in territorio nepalese il 5 aprile, e raggiunge e poi risale a piedi la profonda valle della Kali Gandaki.
Cosa impensabile per una spedizione moderna, la squadra può addirittura scegliere il suo obiettivo tra due straordinarie montagne come il Dhaulagiri e l’Annapurna, alte rispettivamente 8167 e 8091 metri. Entrambe, però, sono raffigurate in maniera approssimativa sulle mappe.
Da Tukuche, un grande borgo di fondovalle popolato da montanari di etnia Thakali, gli alpinisti francesi iniziano le loro puntate esplorative verso le due grandi montagne. Sul fronte del Dhaulagiri, però, le notizie sono tutt’altro che buone. Oltre ad avere un aspetto arcigno, la cima è molto più lontana dalla Kali Gandaki di quanto non lasciassero supporre le mappe. Prima che per le difficoltà della via, un tentativo di salita sarebbe impossibile a causa delle grandi distanze da coprire.
Anche sull’Annapurna le cose non si rivelano semplici. Il Colle di Tilicho, che sulle mappe in possesso di Herzog e compagni sembra dare accesso al versante settentrionale della montagna, mette in realtà in comunicazione l’alta Kali Gandaki con la valle di Manang, che separa il massiccio dalle distese desertiche del Mustang.
Il 27 aprile Jean Couzy, Marcel Schatz e il medico della spedizione Jacques Oudot scoprono un passaggio che dà accesso alla montagna attraverso le selvagge e ripidissime gole della Miristi Khola. La decisione di concentrare gli sforzi sull’Annapurna viene presa quando mancano meno di due settimane al monsone.
La classe e la grinta degli alpinisti, insieme al desiderio di compiere un’impresa pour la France, consentono loro di guadagnare rapidamente quota sui ripidi pendii glaciali del versante settentrionale della montagna. Il 23 maggio, Louis Lachenal e Gaston Rébuffat trovano la via verso la parte alta dell’Annapurna, quattro giorni dopo Maurice Herzog, insieme agli Sherpa Dawa Thondup e Angawa, raggiunge l’inconfondibile ghiacciaio sospeso a forma di falce che dà accesso ai facili pendii che conducono alla cresta sommitale.
La sera del primo giugno è ancora Herzog, stavolta insieme a Lachenal, a installare la piccola tenda del campo V a 7400 metri di quota. Alle due del pomeriggio dell’indomani i due uomini sono sugli 8091 metri della vetta. Ma la discesa diventa subito un dramma.
Duecento metri sotto la cima, Herzog perde i guanti, non pensa a coprirsi con un paio di calzettoni che ha portato apposta nello zaino, si congela rapidamente le mani. Lachenal, i cui piedi hanno perso sensibilità già in salita, scivola sul pendio e sparisce nella nebbia che intanto ha inghiottito l’Annapurna.
Sono Rébuffat e Terray a salvare i due reduci dalla cima. Accolto Herzog al campo V, ritrovano Lachenal e lo conducono nella relativa sicurezza della tenda. Ma i congelamenti alle mani e ai piedi dei due uomini sono gravissimi, e il tempo continua a peggiorare. La mattina del 4 giugno, i quattro scendono nonostante il maltempo. La nebbia e la neve che ha cancellato le tracce impediscono loro di ritrovare il campo IV, e li costringono a un penoso bivacco in un crepaccio.
L’indomani Marcel Schatz li raggiunge e li guida in qualche modo verso il basso. Herzog e Lachenal si muovono a fatica a causa dei piedi congelati, Terray e Rébuffat sono quasi accecati dall’oftalmia. Nei pressi del campo III, quando l’odissea sembra potersi concludere, una valanga travolge gli alpinisti e li trascina per un buon tratto sul pendio.
Al campo II, il dottor Jacques Oudot allestisce in fretta e furia un ospedale da campo, e salva con una avventurosa trasfusione la vita di Herzog. Per i due congelati, il ritorno verso Pokhara è un viaggio infernale.
I portatori che li trasportano su delle rudimentali portantine scivolano a causa del terreno fangoso, rischiando più volte di farli precipitare senza scampo. Le amputazioni alle mani e ai piedi di Herzog e Lachenal iniziano già nel viaggio di ritorno, e sono particolarmente estese soprattutto per il capo-spedizione.
Nonostante ciò, nel suo Annapurna, primo Ottomila, Maurice Herzog non ha parole di recriminazione o rimpianto. “Bloccato sulla barella, meditavo sulla nostra avventura che si stava per concludere e sulla nostra inaspettata vittoria. L’Annapurna, verso cui eravamo andati a mani nude, è un tesoro con il quale dovremo vivere per il resto dei nostri giorni. Con questa coscienza, una nuova vita comincia. Ci sono altre Annapurna nella vita degli uomini”.
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